(..) L'albero è forza verticale di natura, spinta dal suolo a sollevarsi in alto. Somiglia alla postura della specie umana. Perciò il cieco sanato da Gesù a Betsaida descrive gli uomini, visti per la prima volta, come alberi che camminano. E' la più bella impressione fisica del corpo umano ed è giusto che provenga da un cieco, perché i ciechi sono visionari.
Per capire i falegnami bisogna risalire ai boschi. Chi si è inoltrato in un'assemblea di alberi, è stato accolto alla loro ombra, si è steso sulle radici ha potuto ascoltarne il coro. «Allora canteranno di esultanza tutti gli alberi del bosco davanti a Iod/Dio che viene». Il verbo ebraico rinnèn del Salmo 96 (verso 12) è un canto di tripudio e gioia espresso dagli uomini. Qui è attribuito agli alberi, con la stessa forza di esultanza di creature di fronte al creatore.
Noi moderni siamo abituati all'indifferenza per la materia prima e al culto per il prodotto finito. Siamo abituati a pagare poco la fonte e cara la foce. La scrittura sacra racconta il valore degli alberi, del legno e del lavoro umano. Il tronco trasformato in assi ha bisogno di starsene disteso per stagioni intere a dimenticare la linfa e a indurire la fibra. Il taglio del ferro deve rispettare il verso delle venature e combinare le torsioni per pareggiarle a contrasto. Gesù impara da Ioséf, come ho detto participio presente del verbo iasàf, aggiungere, accrescere. Ioséf è colui che aggiunge. Questo dovrebbe essere il titolo di ognuno che viene al mondo, e già con la sua presenza accresce l'umanità di un'immensità nuova, ricchezza di una vita in più a rincalzo di forze contro lo spreco della morte. Ci vogliono molti Ioséf in una generazione. Lui è falegname, un mastro di alberi e di tagli, un fornitore di arnesi per la comunità. Gesù nasce in una stalla, ma cresce in una bottega di artigiano. Le sue mani diventano larghe a forza di stringere manici, sono ammaccate a forza di martello, hanno unghie spezzate, sono dure di schegge incarnite, di calli lubrificati con lo sputo. La sua saliva prodigiosa prima di sanare lesioni, si seccava sul palmo migliorando la presa delle dita. L'interno delle sue mani ha il colore cupo del tannino che penetra nei pori mischiandosi al sudore. La sua faccia ha occhi abituati a stare stretti contro i frantumi di lavorazione che schizzano anche al volto. Il suo naso fiuta le resine, le colle, il grasso e il bitume e la canapa e il sudore di ascelle.
Cresce di peso e forza, ha di certo appetito, ha gusto per il pesce; meno per la carne. E' di Nazareth in Galilea, ma è nato a Betlemme, a sud, in terra di grano e perciò ama il pane. Assaggia poco il vino, appena nelle feste. Se manca, per lui fa lo stesso, per sua madre no, che gliene chiede per gli invitati di uno sposalizio. E lui controvoglia provvede esagerando in gusto e quantità. A Cana non avevano mai assaggiato un vino così giusto per la gioia. Da che vendemmia viene? Da nessuna: non si può ordinare il vino della festa, solo gustarlo per fortuna e grazia d'essere invitati. Non risulta che abbia fatto una simile provvista anche per l'olio, a differenza dei profeti Elia ed Eliseo, esperti di miracoli da ulivo. Ieshu/Gesù più di ogni cibo preferisce il pesce cucinato. Ne assaggia anche dopo la resurrezione, in mezzo ai suoi undici sbalorditi dalla sua apparizione e dal suo appetito. È corpo intero il suo, carne e ossa di resurrezione, è vita restituita che mastica e inghiotte volentieri. Era già accaduto ad altri nella scrittura sacra prima di lui di ritornare indietro dalla morte. Ma solo a lui la seconda vita durerà per sempre. Agli altri, compreso Lazzaro, da lui resuscitato, ricapita la morte.
Sono stato anch'io a bottega da un falegname nei vicoli della città vecchia. L'aria stagnante, sfruttata da bracieri, cucine, motori, là dentro profumava di mogani, di pini. La loro nostalgia di foreste si condensava in cristalli di resina. Il naso, almeno quello, in mezzo a loro era grato di starsene rinchiuso sotto le luci al neon del laboratorio mentre fuori il giorno splendeva per gli altri. Il naso, almeno quello, non sentiva nostalgia dell'aria aperta.
Tra le lavorazioni, le pulizie di macchine e locali, le ore arrivavano e finivano, più col moto di onde che con quello di lancette d'orologio. Avevo allora dentro di me molto silenzio e molta compagnia di pensieri. Per esempio: che opere faceva il collega Ieshu tra la stessa segatura, le stesse schegge mie? Che utensili uscivano dalle sue piallature, dagli smussi di bordo, dagli incastri? E il suo piatto la sera era di legno come la mia scodella ricavata al tornio, o di terracotta? E che legni preferiva maneggiare, il docile sicomoro, il contorto ulivo che impegna a fondo il ferro, la ribelle acacia, e i nodi li aggirava o li spaccava? Ecco un piccolo campione di stupidi pensieri che tengono compagnia nella metà del giorno venduto per salario. Fatto è che Ieshu ha svolto da fondo a cima il lungo apprendistato da garzone a mastro durante gli anni eterni d'infanzia e adolescenza. Il suo corpo è cresciuto sotto la disciplina del lavoro manuale. E se è vero che in fatto di scrittura sacra era «nato imparato» come si dice a sud, che sapeva discutere alla pari con dottori e studiosi, questa dote non gli era stata data pure in falegnameria.
Nella bottega di Ioséf non gli fu risparmiato nessun grado dell'addestramento, compreso le martellate sulle dita. E di chiodi ne piantò a carriole fino a saperli conficcare in tre colpi senza neanche guardare la testa da battere, rinomato esercizio di destrezza in carpenteria. E sapeva che il manico di frassino è il più adatto, e sapeva l'invito naturale che deve presentare l'impugnatura e come accorparlo al ferro per dissipare meglio le vibrazioni dei colpi. Portò sul Golgota l'albero del patibolo, e già tutt'uno con lui.
Quando li ebbe nella carne, i chiodi, quando li sentì entrare, si trovò per la prima volta dalla parte del legno. Come li conosceva quei colpi, il rintocco del ferro, il fiato che accompagna la battuta: li aveva abbandonati per un poco e ora li ritrovava uguali. Gli tornò alla vista Ioséf lasciato solo in vecchiaia, Ioséf che sperava in quel figlio per un aiuto e che forse aveva venduto arnesi e magazzino, rimasto senza cambio.
Toccava a lui, Ieshu, finire come un legno disteso e immorsato, messo in opera da una volontà di offerta e sacrificio. La sua vita era materia prima. La docilità del legno era la sua. Non era più albero che cammina, come gli aveva rivelato il cieco di Betsaida, ora era piantato al suolo e tutti i suoi passi finivano lì a piedi giunti e braccia spalancate come rami.
Il Golgota è un'altura spellata, senza vegetazione. Sulla cima ora spuntava un uomo albero, innestato a sangue. Gli alberi non possono scappare, quando arrivano i tagliatori, restano ad accoglierli e a farsi abbattere. Anche lui come loro non era scappato. Piantato a chiodi sopra un legno in quell'ora aveva pensieri da albero. E voglio credere, per pura immaginazione del mio odorato, che il legno della croce fosse di conifera. Non era stagionato e trasudava resina carezzandogli il naso col ricordo dei boschi. Perché un tempo i buoni falegnami andavano a scegliere i legni salendo alle foreste. Ne curavano il taglio, lo sfoltimento. E Ioséf insegnava a suo figlio quale pianta serviva, esposta a quale versante, stroncata in quale esatto giorno della luna. E Ieshu un poco ascoltava, un poco schiacciava con un sasso i pinoli, accovacciato all'ombra. «Allora canteranno di esultanza tutti gli alberi del bosco davanti a Iod/Dio che viene»: il vento sopra il Golgota veniva da boschi lontani, era pieno di canto.
Così mentre si disfaceva il giorno più breve della sua vita, nelle narici entrava con forza di anestesia il succo della resina, la ferita dell'albero si legava al suo sangue e gli ultimi respiri tornavano ai boschi profumati. Perciò sorrise e crollò il capo di lato sulla spalla con uno scroscio di respiro forte, come chioma di albero abbattuto.
Tratto da ERRI DE LUCA, Penultime notizie circa Ieshu/Gesù, pp. 20-25
Commenti
Posta un commento