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POPOLI DELLA MESOPOTAMIA


 
I primi popoli che hanno utilizzato la scrittura sono quelli della Mesopotamia (= terra in mezzo a due fiumi; è la pianura tra i fiumi Tigri ed Eufrate). La prima lingua scritta da noi conosciuta è il sumerico, risalente al IV millennio a.C.

Quella dei popoli della Mesopotamia è una religione politeista, con a capo la triade celeste (Anu - dio del cielo, sorvegliante degli dèi e degli uomini, Enlil - dio dell'aria e del vento, Ea - dio delle acque) e la triade astrale (Shamash o Utu - dio del sole e della giustizia, Sin - dio della luna e della saggezza, Ishtar (o Inin) - dea della bellezza, dell'amore, della fertilità e della guerra). Marduk, divinità nazionale legato alla città di Babilonia; Nergal dio dell'oltretomba e Inanna dea della terra. Molto diffuso, per motivi religiosi, lo studio dell'astronomia e dell'astrologia. Gli astri erano ritenuti dimore degli e dei e il loro studio permetteva di conoscere meglio il destino degli uomini legato alla volontà degli dèi. Le stesse influenze astrali, positive o negative, venivano interpretate come volontà degli dèi di favorire o di punire gli uomini, per questo l'astrologia era anche una delle tecniche più importanti di divinazione. La stessa Terra era vista come un disco piatto al centro di una sfera rappresentata dal cielo: la Mesopotamia era al centro della Terra, circondata dalle acque dell'oceano. L'aldilà, il mondo degli inferi, si trovava proprio sotto l'oceano.
 
Choqa zanbil o Dur-Untash, una delle ziqqurat meglio conservate, si trova presso Susa, in Iran; fu edificata nel XIII secolo a.C. da Untash Napirisha
In ogni città sorgeva il tempio del dio protettore. Questi templi erano posti in alto sia per evitare i danni causati dalle inondazioni, sia perché si riteneva di essere più vicini alle divinità. Accanto ai templi c'erano le torri delle ziggurat sulla cui sommità c'era la cella sacra. In questa cella c'era la statua della divinità, vestita e nutrita come se fosse un essere umano. Tutti i beni del popolo della città appartenevano al dio protettore. Il sacerdote (dal latina sacer, che significa sacro, considerato mediatore tra gli uomini e il mondo divino) amministrava tutto. Il sacerdote principale ero lo stesso re. Nella stessa cella sacra avveniva il rito dell'Akitu; questo rito comprendeva il rito dell'espiazione (con l'uccisione del capro espiatorio) e il rito dell'automortificazione del re. L'uomo babilonese non doveva offendere le divinità, altrimenti sarebbe stato con le leggi del Codice di Hammurabi. Inoltre, alla sua morte, ogni uomo veniva sepolto per impedire alle loro ombre (che nelle religioni antiche erano gli spiriti, i fantasmi dei morti) di tormentare i vivi. I parenti portavano alle tombe da mangiare e da bere periodicamente per evitare che i morti, nelle loro tombe, soffrissero la fame o la sete. Dopo la morte, l'anima dei defunti (cioè il centro vitale, spirituale e immortale di ogni uomo) entrava nel regno dei morti, luogo tenebroso e triste (come racconta l'epopea di Gilgamesh).Due grandi poemi, l'Enuma Elish (recitato durante il rito dell'Akitu) e l'Epopea di Gilgamesh, ci parlano - attraverso i miti - della nascita del mondo, della morte e della vita nell'aldilà.

 
Enuma Elish ed Epopea di Gilgamesh sono ovviamente di miti: nelle religioni antiche; infatti, spesso le idee, religiose e non, dei popoli antichi sono espresse proprio attraverso i cosiddetti miti, cioè attraverso racconti inventati che hanno come protagonista delle divinità e come scopo quello di dare un messaggio religioso.
Fin dalle prime civiltà che conosciamo (Sumeri, Babilonesi, Assisi, Ittiti, Egizi, Indiani, Cinesi, Fenici) abbiamo grandi miti sulle origini dell’Universo (=cosmogonie, dal greco kosmos –mondo-e gonia –generazione-) giunti fino a noi scritti su tavolette di argilla, bassorilievi e disegni incisi sulla roccia.

L'epopea di Gilgamesh è uno dei più antichi poemi conosciuti e narra le gesta di un antichissimo e leggendario re sumerico, Gilgamesh, alle prese con il problema che da sempre ha assillato l'umanità: la morte e il suo impossibile superamento.
L'Epopea di Gilgamesh parla, quindi, dell'aldilà e della morte.Per i babilonesi la morte era il compimento di ciò che si attendeva con timore e disperazione, nella convinzione che lo spirito, liberato dal corpo, sarebbe disceso in un luogo sotterraneo e oscuro, mentre la vita nell'oltretomba si sarebbe esaurita, al massimo, in un pallido riflesso dell'esistenza sulla terra, senza alcuna speranza di ricompensa per i giusti; ogni uomo era inevitabilmente consegnato agli inferi.
In breve: Gilgamesh è il re sumero di Uruk: è crudele verso i suoi sudditi. Gli dèi, per punirlo, creano e inviano un uomo forte in grado di combatterlo: si tratta di Enkidu. I due combattono, ma lo scontro finisce alla pari, anzi, diventano addirittura grandi amici. La dea Ishtar vorrebbe Gilgamesh come suo sposo, ma egli la rifiuta: allora Ishtar, con l'aiuto del dio Anu manda un enorme toro per uccidere Gilgamesh ed Enkidu. I due amici però combattono insieme contro il terribile toro e riescono ad ucciderlo. Ishtar, ancora più offesa, fa morire Enkidu di una brutale malattia. Comincia qui il dolore di Gilgamesh, il dolore per la perdita dell'amico e per la morte che - un giorno - potrebbe colpire anche lui.
Va alla ricerca del senso della vita e del segreto dell'immortalità. Un suo antenato era diventato immortale e Gilgamesh chiede proprio a lui il segreto della sua immortalità. L'antenato, Utnapishtim, rivela a Gilgamesh che esiste una pianta, nei fondali marini, che dà l'immortalità. Gilgamesh cerca e trova questa pianta; nel viaggio di ritorno si ferma su un'isola per riposare e un serpente mangia la pianta! Disperato Gilgamesh, sapendo che ormai non potrà diventare immortale e dovrà morire, chiede a Nergal (il dio dell'oltretomba) di incontrare lo spirito di Enkidu, per sapere come si vive nell'aldilà. Enkidu rivela all'amico che la vita nell'aldilà è triste e cupa, piena di rimpianti per tutto ciò che non si è fatto nella vita terrena.
In queste ultime parole sono espresse le credenze babilonesi della vita dopo la morte; una visione molto negativa e pessimistica che, comunque, dagli Egizi in poi sarà molto diversa.
Per leggere il testo completo clicca sul sito: www.claudiopenna.it
L'Enuma Elish è uno fra i più noti ed anche il più antico dei miti di cui si ha testimonianza, così chiamato per le due parole introduttive: “Quando in alto…”. Risale alla prima dinastia babilonese (1806-1507 a.C.), comprende sette tavolette cuneiformi, ognuna delle quali contiene un canto di circa 160 versi, è di autore ignoto e celebra la vittoria e l’avvento al trono del giovane dio Marduk.
Da un punto di vista cosmogonico, esso descrive la vittoria degli dei più giovani del cielo sulle divinità più anziane della terra e dell’acqua. All’inizio della creazione del mondo vi erano il principio femminile, la madre comune, Tiamat (“mare”) – l’acqua salata che circonda la terra – e il principio maschile, Apsu, che rappresenta l’acqua dolce sotto terra. Quando gli dèi vennero creati si scatenò una lotta tra la luce e l’oscurità, in cui Apsu e Kingu, il figlio di Tiamat, rimasero uccisi. Marduk, figlio del Sole, dopo aver ucciso Tiamat, ne divide il corpo in due metà, a forma di conchiglia. Con una metà egli formò il cielo con le stelle, con l’altra metà fece la terra e gli inferi. Marduk creò delle ossa, a queste mischiò il sangue del dio Kingu: vennero così creati gli uomini, con la funzione di servire e prendersi cura degli dei. Il mito di Enuma Elish trasmette i seguenti messaggi religiosi: il mondo ha origini divine il genere umano viene creato per un preciso volere di una divinità il genere umano riceve la vita grazie al sangue di una divinità il genere umano ha lo scopo (in questa religione) di servire gli dèi. Il mito racconta anche l'idea che i babilonesi avevano dell'aldilà: un posto unico, uguale per tutti e totalmente negativo.
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Hammurabi (XVIII secolo a.C.), re di Babilonia della prima dinastia. Regnò dal 1792 al 1750 ca. a.C. e, con le vittorie sugli amorrei e gli assiri, estese l'impero dal golfo Persico, attraverso la valle del Tigri e dell'Eufrate, sino alle coste del mar Mediterraneo. Fece di Babilonia la capitale del regno e, dopo aver consolidato le sue conquiste, si preoccupò di difendere le frontiere e di garantire la prosperità all'interno dell'impero. Abile amministratore e valoroso guerriero, Hammurabi è noto principalmente per il codice legislativo, conosciuto come Codice di Hammurabi, contenente disposizioni di diritto pubblico e privato, che regolavano la vita del regno babilonese. Il Codice è una raccolta di leggi risalenti al re di Babilonia Hammurabi. È il più antico codice di leggi conservatosi integralmente e la più lunga iscrizione babilonese che tratti di un unico argomento. Impresso su una stele di basalto risalente al 1780 a.C. circa e alta 225 cm, fu scoperto da un gruppo di archeologi francesi a Susa, in Iraq (l'antico regno dell'Elam), nel 1902. La pietra, spezzatasi in tre parti, è ora ricomposta e conservata al Museo del Louvre a Parigi. L'origine divina della legge scritta è sottolineata da un bassorilievo nel quale Hammurabi è ritratto mentre riceve il codice dal dio Sole, Shamash, che a Babilonia era simbolo di giustizia.
Il codice, in 282 leggi, è redatto su 3600 colonne orizzontali in scrittura cuneiforme e 49 verticali e riporta molte attinenze con le Tavole della Legge che il Signore diede a Mosè sul monte Sinai, secondo la Bibbia. Sarà un caso? Vediamo qui alcuni passi del codice di Hammurabi:

Dal Codice di Hammurabi

- Non commettere rapina.
- Non spostare una pietra confinaria.
- Non frodare.
- Non concupire.
- Non desiderare la roba d’altri.
- Non rapire.
- Non si faccia falsa testimonianza.
- Un uomo non deve avere rapporti sessuali né con sua madre, nè con la sorella della madre, nè con un altro uomo, nè con la moglie di un altro uomo. Nè l’uomo nè la donna devono accoppiarsi con le bestie. Non si deve indulgere in comportamenti provocanti che possano condurre a un’unione proibita. Non sia castrato alcun maschio, nè uomo nè animale.
- Non si nutra il pensiero che esista altra divinità al di fuori del Signore. Non si intagli immagine alcuna. Non si facciano idoli per uso altrui. Non ci si inchini davanti a un idolo e non si facciano libagioni o sacrifici, né si bruci incenso davanti a un idolo. Non si facciano passare i figli attraverso il fuoco del culto del Moloch.
- Non profanare il nome di Dio (...).

 

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